“Sotto lo stesso Sole”:
Chiacchiere estive oltre il limite della libertà

Published : 18 August 2022

Suor Federica Casaburi ci racconta qualcosa del suo apostolato in carcere.

Sœur Federica Casaburi nous parle de son apostolat en prison.

IN ITALIANO   ▪   EN FRANÇAIS


IN ITALIANO

« SOTTO LO STESSO SOLE »
chiacchiere estive oltre il limite della libertà

    Non sono una cifra in matematica, ma c’è un’equazione che mi va a genio e cioè: estate = Álvaro Soler. Che ci volete fare, ogni suo singolo si affaccia alla radio in punta di piedi, preferibilmente in fin di primavera, e si trasforma in uno stalking massivo, aggravato dalla canicola che offusca i sensi e dalla recidiva reiterata dell’autore. Testi melanconici amalgamati con incalzanti riff dal sapore latin pop. Ci sa fare!
    Perché parlo di ciò? Ecco, sono le ore 15 di un anonimo e fiammeggiante martedì di agosto. La periferia di Roma è semideserta. Uscire di casa è un atto di riparazione dei peccati propri e altrui. Mi accingo a parcheggiare l’auto, deposito gli effetti personali, supero il check-in, attraverso l’area verde, saluto chi incrocio, imbocco la rampa di scale e d’un tratto la musica di El mismo sol mi raggiunge in filodiffusione. Mi entusiasma il passo, mi pare che mi rinfreschi pure le idee. Mi fa volare in una dimensione graziosamente vacanziera, ove Álvaro fa da padrone e da vero caballero mi accompagna col suo ritmo irresistibile e ingannevole, mentre percorro in solitaria il lungo corridoio sotterraneo, quello che collega gli uffici direzionali al cuore pulsante del più popoloso carcere femminile d’Europa. Benvenuti a Rebibbia! Se avete un po’ di immaginazione vi porto in sezione con me!


    In carcere non si entra mai per caso, qualche volta si entra per errore, molti vi entrano per lavoro, moltissimi entrano per disposizioni giudiziarie e poi vi sono alcuni che entrano per gratuità. Quindi chiariamo subito che in questo agglomerato edilizio, giovane quanto i Rolling Stones, la persona “stonata” sono io. Epperò, come dice Álvaro, per quanto diverse possano essere le nostre provenienze e i nostri orizzonti, quando varchiamo la soglia delle porte meccanizzate, «siamo tutti qui, insieme, sotto lo stesso sole»; un sole che scalda o che ustiona, un sole che aumenta il livello vitaminico o che provoca eritema cutaneo. Ognuno ha il suo rapporto personale col sole, che sempre sole rimane. Il sole è lo stesso, il carcere è lo stesso, l’ordinamento penitenziale è lo stesso, anche i codici d’onore sono gli stessi. Ma per quanto mi sforzi di cercare, non ho ancora trovato un detenuto uguale a un altro.

    Da quasi un anno frequento il “Rebibbia femminile”, un carcere che sarcasticamente ti accoglie all’ingresso con la migliore selezione di musica commerciale, diffusa dagli altoparlanti di servizio… «per ravvivare l’ambiente», dicono. Un carcere abitato da 336 donne e 3 bimbi, a fronte di 260 posti regolamentari. Per il 66% si tratta di italiane. Fra le straniere vi sono molte bosniache. L’età media si aggira intorno ai 40 anni1.
    Per lo Stato, io sono una volontaria ex art. 17 della Legge 354/1975. Per la Chiesa, sono un’operatrice di pastorale carceraria in legame con l’USMI2. Per me, sono una suora che “entra ed esce dal carcere”.
Quando ho cominciato non sapevo bene che piega avrebbe preso la mia presenza. Ero pronta a farmi “tutta a tutti”, come direbbe San Paolo (cfr 1Cor 9,22). Ad oggi non svolgo lavori particolari, non faccio catechismo, né incontri di preghiera, non accedo al guardaroba della Caritas.
    Quando entro in sezione mi viene chiesto di sedermi ad un tavolo, prendere la lista che “la scrivana”3 ha preparato durante la settimana ed incontrare una per una le donne che hanno richiesto di parlare con me. Quasi sempre non riesco a riceverle tutte, sono tante e non certo per mio merito. A volte sono spinte da curiosità squisitamente femminile, altre volte sperano che io abbia in tasca la comunità-alloggio ideale a proseguire la pena in forma extracarceraria, altre volte hanno bisogno di vestiti, o francobolli, o buste da lettera, o un rosario da indossare al collo, o sigarette da fumare ad occhi chiusi, magari sognando che sia crack. A volte mi chiedono di telefonare alla loro mamma per dirle che ce la stanno mettendo tutta a cambiare vita. Una volta ho telefonato a un fidanzato per dirgli “ti amo” da parte della mittente. A volte – il più delle volte – si siedono davanti a me perché hanno bisogno di parlare, di piangere, di ridere, di sperare, di una neutral zone… e non fanno neanche troppa differenza tra una suora e una psicoterapeuta.
    Quando le detenute per qualche ragione disciplinare sono in regime “a cella chiusa”, le agenti di polizia penitenziaria mi accompagnano fino alle sbarre della loro cella, io mi siedo sull’uscio e le incontro così. Quando una detenuta è malata, chiedo alle agenti il permesso di entrare in cella, mi siedo accanto alla branda e la incontro così. Quando una detenuta attraversa un momento di particolare sofferenza, le agenti più attente vengono delicatamente a dirmelo, io la faccio chiamare e se ha voglia di parlare la incontro così.
    «Permesso, grazie, scusa»: le tre parole che papa Francesco raccomanda di custodire in famiglia, io cerco di applicarle scrupolosamente in carcere, là dove una buona fetta della popolazione arranca come me in matematica e conosce solo una modesta equazione del tipo famiglia = violenza, o al contrario famiglia = salvezza, o ancora famiglia = clan, oppure prescinde totalmente dalla variabile famiglia.

    «Bajo el mismo sol!». Quanto è importante sentirsi “sotto lo stesso sole”, che non significa sentirsi “tutti uguali”, ma piuttosto sentirsi “tutti implicati” nel processo di accompagnamento di un detenuto, senza però confondere le distinte competenze. Perché se non c’è un rapporto di cordiale ed istituzionale fiducia tra le varie istanze che operano all’interno del carcere – volontari, agenti di polizia, educatori, assistenti sociali, psichiatri, direzione – anche gli sforzi eticamente più meritevoli finiscono per disperdersi.
    Il passaggio dalla tristezza al suicidio è assai rapido in carcere, soprattutto in estate. Altrettanto il passaggio dalla rimessa in libertà alla fatale overdose, se l’uscita di un detenuto tossicodipendente non è sostenuta da un progetto terapeutico intra ed extra murario. Gli atti di autolesionismo a mezzo di oggetti rudimentali – i cosiddetti “tagli” – sono praticati così diffusamente che io non arrivo a distinguere se la detenuta se li è inferti per disperazione o per omologazione. Soltanto una minima parte viene rilevata nelle statistiche ufficiali.
    Eppure, ed è questo l’aspetto più scomodo da spiegare, nei meandri delle sezioni c’è un desiderio di vita che mi lascia spiazzata. C’è una fame di affetto che mi fa balbettare. Vite tolte e vite donate; vite maltrattate e che hanno maltrattato; vite usurpate, in dare e in avere, come nella contabilità aziendale. Affetti ammalorati, affetti distorti, affetti mancati o esasperati. Dentro ogni carcere c’è un condensato di umanità più fervido del “pippiare” del ragù napoletano.
    Tutto è soggetto a giudizio in carcere. Si entra per un giudizio (provvisorio o definitivo) e si passa per una moltitudine di altri giudizi o pseudo-giudizi, ufficiali o ufficiosi, necessari o voluttuari: il giudizio del magistrato di sorveglianza, il giudizio del direttore, il giudizio dell’educatore preposto a relazionare sul percorso di risocializzazione, il giudizio degli agenti, il giudizio sugli agenti, il giudizio dei compagni di cella… Forse è per questo che mi piace tanto il mio apostolato, perché quando incontro una detenuta e costruisco un dialogo, la mia urgenza non è elaborare un giudizio e neanche inculcare una morale. La mia urgenza è accogliere ed essere accolta. È un’urgenza di recordare, di “riportare al cuore”, come esorta la Lettera agli Ebrei: «Ricordatevi dei carcerati, come se foste loro compagni di carcere» (Eb 13,3). È l’urgenza di rubare un sorriso e regalare alla detenuta un barlume di sollievo al momento di rientrare in cella.

    Anche quest’oggi, verso la metà del pomeriggio, incontro Carmela4, quasi fosse il tè delle cinque. È una donna d’onore, Carmela, nel senso più siciliano che ci possa essere. Allattata al seno di “mamma mafia”, fino a quando è diventata lei stessa una insigne domina di cosa nostra. Un giorno sono stata informata che mi voleva incontrare e ho avvertito un brivido di timore misto a una manciata di adrenalina. Sicché, per ridimensionare il mio ego, mentre mi recavo da lei ho pregato il rosario. Quando mi hanno accompagnato nella sua cella isolata e hanno chiuso la porta alle mie spalle, ho trovato un sorriso grande e caldo che mi aspettava. Mi osservava da tempo, Carmela, da dietro il finestrino del blindato, e qualcosa le si era mosso nel cuore: le ricordavo sua figlia. Per prima cosa mi mostra una foto di famiglia attaccata alla parete e… sì, dai, la somiglianza ci sta! Non sapevo bene come approcciare, cosa dire e cosa non dire. Soprattutto non mi volevo complicare la vita. Poi ho trovato un argomento ad hoc, che puta caso stava a cuore ad entrambe: la parmigiana di melanzane. E la conversazione è andata alla grande. È una donna forte, Carmela, tanto dentro quanto fuori del carcere. E non poteva essere altrimenti, sotto il sole cocente della Sicilia e della mafia che l’ha cresciuta. Ma il cuore di mamma non fa sconti a nessuno e quando mi parla dei suoi figli Carmela è sempre sopraffatta dalla commozione. Da quel dì ci siamo ricavate uno spazio regolare di ascolto, semplice e affabile, e di molte altre cose abbiamo parlato, al di là del campanilismo culinario, che nella sua apparente innocenza ci ha aperto la strada e ci ha permesso di sostare bajo el mismo sol.

    Avrei ancora molto da raccontare ma mi rendo conto che si è fatta l’ora di andare. Il carrello del vitto sta già passando per i corridoi ed è tempo per me di ritornare nella società dei liberi, mentre ogni detenuta rientra nei suoi 3 metri quadri pro capite di cella, che le agenti chiudono dall’esterno.
    Se nel frattempo voi siete arrivati a leggere fin qui, che sia per curiosità o per benevolenza, poco importa. Ciò che invece conta è che ognuno di noi, anche nei momenti in cui tira fuori il peggio di sé, possa trovare qualcuno che non disdegni di avvicinarsi e abbia la semplicità di intrattenersi, fosse solo per un po’, fosse solo per condividere l’olio Johnson, o il sogno di una vita migliore… sotto lo stesso sole.

suor Federica Casaburi
Congregazione Romana di San Domenico • Roma
federica.casaburi@gmail.com
Domenicane CRSD Italia
crsdop.org

1. I dati si riferiscono a giugno 2022. Il report completo, è consultabile qui.
2. Unione delle Superiori Maggiori d’Italia.
3. La “scrivana” è la detenuta addetta a compilare le domande di colloquio presentate dalle detenute.
4. Il nome utilizzato è di pura fantasia.


EN FRANÇAIS

« SOUS LE MÊME SOLEIL »
pensées vagabondes au-delà de la liberté

    Je ne suis pas une flèche en mathématiques, mais il y a une équation qui me plaît bien : été = Álvaro Soler. Que voulez-vous, chacun de ses single fait son entrée discrète à la radio, sur la pointe des pieds, de préférence à la fin du printemps, et se transforme en un harcèlement massif, aggravé par la canicule qui émousse les sens et par la récidive de l’auteur. Des textes mélancoliques amalgamés avec des refrains insistants, à la saveur pop-latino. Il sait y faire !
    Pourquoi est-ce que je vous raconte cela ? Il est 15h, un mardi d’août anonyme et brûlant. La banlieue romaine est semi-déserte. Sortir dans la rue est un acte de réparation pour ses propres péchés. Je gare la voiture, dépose mes effets personnels à la consigne, passe les contrôles, traverse l’espace vert, salue les personnes que je rencontre, aborde la première volée d’escaliers et, soudain, la mélodie d’ El mismo sol parvient à mes oreilles. Le rythme m’enthousiasme, on dirait presque qu’il me rafraîchit les idées. Avec lui, je m’envole dans une atmosphère vacancière, où Álvaro est le maître et le vrai cavalier qui m’entraîne dans son rythme irrésistible… et trompeur, alors que je progresse en solitaire le long du couloir souterrain qui relie les bureaux administratifs au cœur palpitant du plus important centre pénitentiaire pour femmes d’Europe. Bienvenue à Rebibbia ! Si vous avez un peu d’imagination, suivez-moi !


    On n’entre jamais par hasard en prison. Parfois par erreur ; certains y entrent aussi pour travailler, plus nombreux sont ceux qui y entrent par ordonnance judiciaire et quelques-uns enfin entrent par souci de gratuité. Donc, dans ce complexe de bâtiments aussi jeune que les Rolling Stones, je détone ! Et pourtant, comme dit Álvaro, quelles que soient nos différences d’origines et d’horizons, une fois passé le seuil de l’établissement « nous sommes tous ici, ensemble, sous le même soleil » ; un soleil qui réchauffe ou qui brûle, qui dope la production de vitamine D ou provoque de l’urticaire. Chacun entretient un rapport personnel avec le soleil, qui, lui, reste invariablement le soleil. Comme la prison est toujours la prison, le règlement carcéral toujours le même, les codes d’honneur aussi. Cependant, malgré mes recherches laborieuses, je n’ai pas trouvé un détenu identique à un autre.

    Depuis presqu’un an, je visite la « Rebibbia féminine », une prison qui – comble de l’ironie – vous accueille à l’entrée avec la meilleure sélection des musiques en vogue, diffusées par les haut-parleurs de service… « pour créer une ambiance plus chaleureuse », comme ils disent. Cette prison abrite 336 femmes et 3 petits enfants, pour 260 places opérationnelles. 66% d’entre elles sont italiennes. Parmi les étrangères, les bosniaques sont nombreuses. L’âge moyen est d’environ 40 ans1.
    Pour l’Etat, je suis une bénévole selon l’art. 17 de la loi 364 de 1975. Pour l’Eglise, je suis une auxiliaire de l’aumônier de prison en lien avec l’USMI2. Pour moi, je suis une sœur qui « entre et sort de prison ». Au départ, je ne savais pas en quoi consisterait mon activité. J’étais prête à me faire « toute à tous » comme dirait Saint Paul (cf 1 Co 9, 22). À ce jour, je ne réalise aucun travail particulier, je n’anime ni catéchèse ni groupe de prière, je n’ai pas accès au vestiaire de la Caritas.
    Quand j’entre dans le quartier3, on me demande de m’asseoir à une table, de prendre la liste préparée par la « scribe4 » et de rencontrer une par une les femmes qui ont demandé à me parler. Je n’arrive jamais à les rencontrer toutes, elles sont trop nombreuses, et le mérite ne m’en revient pas. Parfois elles sont poussées par une curiosité délicieusement féminine, d’autres fois elles espèrent que j’aie en poche la liste des communautés de réinsertion idéales pour poursuivre leur peine hors de la prison ; d’autres ont besoin de vêtements, de timbres, d’enveloppes, ou d’un chapelet à se mettre autour du cou, ou encore de cigarettes à fumer les yeux fermés, en rêvant peut-être que c’est du crack. Parfois elles me demandent de téléphoner à leur mère pour leur dire qu’elles font tout ce qu’elles peuvent pour changer de vie. Il m’est même arrivé de téléphoner au compagnon de l’une d’elle pour lui dire « je t’aime » de sa part. D’autres fois – le plus souvent en fait – elles s’assoient en face de moi parce qu’elles ont besoin de parler, de pleurer, de rire, d’espérer… dans une zone neutre… et elles ne font pas vraiment la différence entre une sœur et une psychothérapeute.
    Quand, en raison d’une mesure disciplinaire, une détenue est à l’isolement, les surveillantes m’accompagnent jusqu’aux barreaux de sa cellule, je m’assieds devant le seuil et la rencontre ainsi. Quand une détenue est malade, je demande la permission d’entrer dans sa cellule et je m’assieds près de sa couche pour la rencontrer. Les surveillantes les plus attentives me préviennent discrètement si une détenue passe par un moment difficile, je peux ainsi l’appeler et, si elle le désire, la rencontrer.
    « S’il-te-plaît, merci, pardon » : je cherche à appliquer scrupuleusement ces trois mots que le pape François recommande aux familles de garder pour soigner leurs relations. En effet, la plus grande partie de la population carcérale, aussi douée que moi en mathématiques, ne connaît qu’une pauvre équation du type famille = violence, ou au contraire famille = salut, ou encore famille = clan, quand elle ne fait pas totalement l’impasse sur la variable famille.

    «Bajo el mismo sol!». Combien il est important de se sentir « sous le même soleil », ce qui ne signifie pas se sentir « tous égaux », mais plutôt « tous impliqués » dans le processus d’accompagnement d’un détenu, sans confusion des compétences de chacun. En effet, si les différents opérateurs en prison – bénévoles, surveillants, travailleurs sociaux, psychiatres, direction – ne travaillent pas en bonne entente, dans la cordialité et en tissant des rapports de confiance, alors, même les efforts les plus méritants éthiquement parlant seront vains.
    Le passage de la tristesse au suicide est assez rapide en prison et surtout en été. De même que celui de la remise en liberté à l’overdose mortelle, si la sortie de prison d’un détenu toxicodépendant n’est pas accompagnée par un projet thérapeutique avant et après la sortie. Les actes d’automutilation au moyen d’objets rudimentaires sont assez fréquents, si bien que je ne sais pas distinguer s’ils sont infligés par désespoir ou pour être homologués par un groupe. Un faible nombre d’entre eux seulement est répertorié dans les statistiques officielles.
    Malgré tout, et c’est l’aspect le plus difficile à expliquer, dans les arcanes du quartier, je découvre un puissant désir de vivre qui me déconcerte. Il s’exprime par une soif d’affection face à laquelle je balbutie. Des vies prises et des vies données ; des vies violentées et qui ont infligé de la violence ; des vies usurpées, passées en pertes et profits comme dans la comptabilité d’une entreprise ; des affections malades, désordonnées, absentes ou exaspérées : dans toute prison, on trouve un concentré d’humanité plus dense que la sauce bolognaise.
    En prison, tout est soumis à un jugement. On entre par un jugement du tribunal (provisoire ou définitif) et l’on passe au crible de nombreux autres jugements ou pseudo-jugements, officiels ou officieux, nécessaires ou optionnels : le jugement du JAP5, celui du directeur, celui du travailleur social qui rédige le rapport de socialisation, le jugement des surveillants, le jugement sur les surveillants, le jugement des codétenus… Ce qui me plaît le plus dans cette activité c’est que je peux rencontrer une détenue et tisser un dialogue sans avoir à élaborer un jugement ni à inculquer une morale. Ma seule urgence est d’accueillir et d’être accueillie. C’est l’urgence de recordàre (= « se souvenir », « ramener au cœur »)6, comme le dit la Lettre aux Hébreux : « Souvenez-vous de ceux qui sont en prison, comme si vous étiez prisonniers avec eux » (He 13, 3). C’est l’urgence de voler un sourire et d’offrir à la détenue un peu de soulagement au moment où elle doit retourner en cellule.

    Aujourd’hui, vers 17h, je rencontre aussi Carmela7, comme si j’allais au salon de thé. Carmela est une femme d’honneur, au sens le plus sicilien qui existe : allaitée au sein de la « mère mafia » jusqu’à devenir elle-même une éminente chef de Cosa Nostra8. Un jour on m’informe qu’elle souhaite me rencontrer, je suis traversée par un frisson de crainte et en même temps une poussée d’adrénaline. La surveillante m’accompagne à sa cellule d’isolement et une fois qu’elle a fermé la porte derrière moi, je me trouve face à un beau sourire accueillant. Depuis longtemps Carmela m’observait, de derrière la petite fenêtre de la porte blindée, et son cœur frémissait : je lui rappelais sa fille. La première chose qu’elle a faite fut de me montrer une photo de famille accrochée au mur et… oui, je dois dire qu’il y a bien une ressemblance ! Je ne savais pas vraiment comment aborder Carmela, ce que je pouvais dire ou ne pas dire. Surtout, je ne voulais pas me compliquer la vie. Alors j’ai trouvé, par chance, un sujet vraiment adapté, car il nous passionnait toutes les deux : les aubergines à la Parmigiana. Et la conversation est allée bon train ! Carmela est une femme forte, hors de prison et à l’intérieur. Et il ne pouvait en aller autrement sous le soleil brûlant de Sicile et de la mafia qui l’a élevée. Mais le cœur d’une mère n’admet aucun faux semblant et, quand elle me parle de ses enfants, Carmela cède toujours à l’émotion. Depuis ce jour, nous nous sommes réservé des espaces réguliers d’écoute simple et bienveillante, et nous avons parlé de mille choses, au-delà des spécialités culinaires de nos régions, qui, avec leur apparence d’innocence, nous ont ouvert une voie et nous ont permis de nous arrêter bajo el mismo sol.

    J’aurais encore beaucoup à vous raconter mais je me rends compte qu’il est l’heure d’y aller. Le chariot du dîner passe déjà dans le couloir et il est temps pour moi de retrouver la société des personnes libres, alors que chaque détenue rentre dans sa cellule de 3m² par personne, que les surveillantes ferment de l’extérieur.
    Si vous avez réussi à me lire jusqu’ici, peu importe que ce soit par curiosité ou par bienveillance. Ce qui compte, c’est que chacun de nous, même dans les moments où il montre le pire visage de lui-même, puisse trouver quelqu’un qui ne refuse pas de s’approcher, ne serait-ce que quelques instants, pour partager tout simplement de l’huile bronzante… ou le désir d’une vie meilleure, sous le même soleil.

Merci à sœur Christine Gautier OP, pour la traduction.

sœur Federica Casaburi
Congrégation Romaine de Saint Dominique • Rome
federica.casaburi@gmail.com
Domenicane CRSD Italia
crsdop.org

1.Les données se réfèrent à juin 2022. Le rapport complet est consultable ici.
2.L’USMI est la Conférence des Supérieures Majeures Italiennes.
3.. Toutes les prisons sont structurées en un ou plusieurs quartiers, chacun étant caractérisé par un régime de détention spécifique.
4.. La « scribe » est une détenue habilitée à établir la liste des entretiens en fonction des demandes des détenues.
5.Le JAP (= Juge de l’Application des Peines) est le magistrat compétent pour fixer les principales modalités de l’exécution des peines privatives de liberté.
6.Le terme latin recordàre, correspondant aujourd’hui au verbe se souvenir, est composé de la particule *re- (= à nouveau) et *cor/cordis (= relatif au cœur). En effet, le cœur était considéré par les anciens comme le siège de la mémoire, d’où l’expression courante « apprendre par cœur ».
7.Le prénom a été modifié.
8.Cosa Nostra (en français = notre affaire) est le nom par lequel les membres de la mafia sicilienne désignent leur organisation criminelle, qui s’est développée à travers ses ramifications, ses parrains, ses codes et ses attentats terroristes, dont beaucoup contre des représentants de l’État (les massacres des année ‘80-’90).